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ORANFOOD

Sul nostro canale INSTAGRAM è stata lanciata la nuova rubrica “ORANFOOD”. L’idea è quella di parlare di cibo insieme alla nostra dietista dott.ssa Serena Manzocco (https://orangym.it/servizi/dietista/) da un punto di vista etico. L’appuntamento è il lunedì alle 19:00.

Ecco la prima intervista andata in “diretta-instagram” lunedì 27 aprile.

D: Ciao, Serena, iniziamo questa nuova rubrica parlando di?

Serena: Oggi parliamo di cioccolato.

D: Golosissimo argomento! Come arriva a noi il cioccolato?

Serena: Nato sotto forma di bevanda per i Maya, arriva in Europa nel ‘500 grazie a Cortez. È solo tra il 700 e l’800, con l’avvento delle macchine a vapore per la macinazione delle fave e l’estrazione del burro di cacao, che il cioccolato assume la sua vera identità, diventando nutrimento dell’anima.

D: A livello Globale dove si produce il cacao?

Serena: Il 70% delle fave di cacao in circolazione a livello mondiale proviene dall’Africa occidentale, nello specifico dalla Costa d’Avorio e dal Ghana. Nigeria, Camerun, Indonesia, Brasile ed Ecuador producono il resto. Il mercato mondiale per la lavorazione del cacao e per la produzione di cioccolato è invece prerogativa esclusiva di 10 aziende che di fatto formano un oligopolio.

D: Mi pare di capire che esistono quindi dei problemi di sostenibilità etica nella produzione di cioccolato/cacao?

Serena: Sì, i problemi principali sono la deforestazione con conseguente perdita di biodiversità e il lavoro minorile.
Il cacao africano proviene in gran parte da piantagioni all’interno di parchi nazionali e aree protette, con l’utilizzo di molti pesticidi. A partire dalla sua indipendenza, ottenuta nel 1960, la Costa d’Avorio ha perso circa il 90% delle sue foreste, portando alcune specie, come l’elefante delle foreste e gli scimpanzé, sull’orlo dell’estinzione. In Ghana invece la deforestazione legata alla coltivazione del cacao è stata così ampia che il Paese potrebbe perdere tutte le sue foreste all’esterno delle aree protette. Nella sola Costa d’Avorio sud-occidentale, cuore della coltivazione del cacao, la deforestazione in solo metà anno è equivalente a 15 mila campi da calcio.
Secondo le stime dell’organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), sarebbero più di 80 milioni i bambini e le bambine tra i 5 e i 14 anni economicamente attivi in Africa di cui il 95% verrebbe impiegato in agricoltura, soprattutto nelle piantagioni di cacao, caffè e banane. Spesso queste effettuano lavori nocivi e sono vittime delle peggiori forme di lavoro minorile che ne mettono a rischio la salute, l’educazione, lo sviluppo delle loro potenzialità personali e sociali e spesso la vita stessa.
Le condizioni disumane in cui lavorano le persone all’interno delle piantagioni e la presenza di minori ridotti in schiavitù, sono stati denunciati fin dal 1999 dalle Organizzazioni Non Governative.

D: Che strategie sono possibili per porre fine a questo sfruttamento?

Serena: Nel 2001 il settore del cacao e del cioccolato aveva sottoscritto volontariamente il protocollo Harkin- Engel con il quale si impegnava a porre termine entro la fine del 2005 alle peggiori forme di lavoro minorile, a combattere la tratta dei bambini e il lavoro forzato degli adulti nelle piantagioni di cacao della Costa d’Avorio e del Ghana.
Nel 2005 il termine per il raggiungimento degli obiettivi fu però posticipato al giugno 2008 e nel 2008 ulteriormente spostato alla fine del 2010. Nel 2010 però le multinazionali del cacao hanno firmato un accordo internazionale ritardando al 2020 la riduzione del 70% del numero di bambini impiegati nelle piantagioni. Ad oggi è facilmente intuibile come la situazione dello sfruttamento del lavoro minorile sia tutt’altro che risolta.

D: Cosa non ha funzionato in queste strategie?

Serena: Probabilmente, anche in questo caso, è mancata la volontà onesta e sincera di affrontare radicalmente il problema principale e cioè l’influenza diretta del prezzo del cacao, delle politiche macroeconomiche e degli accordi commerciali sulla violazione dei diritti dell’infanzia. Se le multinazionali del cacao rinunciassero anche minimamente ai considerevoli utili conseguiti per effetto del basso costo della materia prima, probabilmente sarebbe più facile dare vita a condizioni di lavoro più umane all’interno di queste piantagioni.
Trarre conclusioni risulta sempre molto complicato quando si affrontano queste tematiche. E’ risaputo che l’industria del cioccolato continui a mostrare importanti resistenze nel dichiarare in etichetta informazioni sull’origine del cacao utilizzato, sulla composizione della filiera di approvigionamento e sulle politiche d’acquisto.

D: Che cosa possiamo fare noi consumatori finali per eliminare questa piaga?

Serena: Acquistiamo informati, leggiamo le etichette e se non vediamo segnata la provenienza del cacao, prendiamoci tempo per una telefonata al Servizio Consumatori dell’Azienza Produttrice per chiedere da dove proviene quella tavoletta o perdiamo un po’ di tempo tra gli scaffali del supermercato alla ricerca di un cioccolato Fairtrade.

D: Spiegaci meglio…

Serena: È il Marchio di certificazione del commercio equo e solidale FAIRTRADE che puoi trovare in migliaia di punti vendita in tutta Italia. Fairtrade è un’organizzazione internazionale che lavora ogni giorno per migliorare le condizioni dei produttori agricoli dei Paesi in via di sviluppo. Lo fa attraverso precisi Standard che permettono agli agricoltori e ai lavoratori di poter contare su un reddito più stabile e di guardare con fiducia al loro futuro.

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